Caporalato: indici di sfruttamento, stato di bisogno, profitto
E’ purtroppo sempre più frequente, soprattutto in certe zone d’Italia, l’impiego di manodopera, soprattutto extracomunitaria, fornita da soggetti senza scrupoli o reclutata direttamente o tramite intermediari e poi fatta lavorare in condizioni di sfruttamento, per quanto attiene sia il profilo retributivo che quello attinente la sicurezza del lavoro. Il legislatore ha inteso colpire queste tristi e gravi vicende con l’introduzione della fattispecie di reato del caporalato (art. 603 bis del codice penale) che sicuramente appronta uno strumento sanzionatorio di grande efficacia ma che, altrettanto sicuramente, non è sufficiente per scoraggiare, da un lato, imprenditori che cercano di minimizzare i costi della manodopera per massimizzare il profitto, e, dall’altro, lavoratori in condizioni di indigenza o semi indigenza, che sono pronti a tutto pur di racimolare un impiego e qualche soldo. E’, questo, anche il portato della globalizzazione, che porta masse di individui a cercare il lavoro, quale che sia, in altre aree geografiche, diverse dalla propria, e, per altro aspetto, della crisi economica che la pandemia ha ingigantito, con la conseguente ricerca esasperata di guadagni, intendendo per ciò sia il profitto che quanto serve al sostentamento minimale; il tutto a discapito, spesso, delle esigenze, che sarebbero imprescindibili, per ragioni morali, prima ancora che giuridiche, di rispetto della dignità e della salute della persona. Il settore dell’agricoltura è quello in cui tali caratteristiche e condizioni si manifestano con maggiore frequenza, ma non è certo il solo; è, però, quello in cui le condizioni di degrado in cui i lavoratori sono chiamati ad operare manifestano forse la loro più allarmante tragicità.
La vicenda conclusa dalla sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, del 17 marzo 2021, n. 10188 trae origine dall’intervento di Carabinieri che, transitando nei pressi di campi coltivati, avevano notato 15 cittadini di origini extracomunitarie intenti nei lavori agricoli e avevano proceduto per identificarli e per verificarne la regolare assunzione; alcuni di essi, al sopraggiungere dell’auto di servizio, si erano dati alla fuga. Quei braccianti non erano dotati di mezzi di protezione o di scarpe adeguate, né vi erano luoghi attrezzati per consentire la pausa dal lavoro o per eventuali necessità fisiologiche; in particolare, l’unica attrezzatura presente era una tenda posizionata in un campo adiacente a quello di lavoro e al cui interno si trovavano un materasso maleodorante, dei vestiti messi ad asciugare e delle bottigliette di acqua.
I cinque lavoratori identificati non risultavano regolarmente assunti e, comunque, come gli altri, non erano stati sottoposti alle necessarie visite mediche per essere ammessi al lavoro nei campi.
Uno dei braccianti riferiva di essere sprovvisto di un contratto di lavoro, di lavorare per 10 ore al giorno per una paga giornaliera di 20 euro (2 euro/h), che l’orario di lavoro andava dalle ore 8 alle ore 20 con due ore di pausa, che non gli erano fornite dotazioni di lavoro, che doveva portarsi da casa il cibo e l’acqua.
Ebbene, il delitto di caporalato si consuma mediante le condotte, tra loro alternative, del reclutamento, finalizzato alla destinazione al lavoro presso terzi, ovvero dell’utilizzo, dell’assunzione o dell’impiego (è palese la ridondanza della previsione normativa) di manodopera in condizioni di sfruttamento, con approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori. Caratteristica della disposizione normativa è quella di tipizzare gli “indici sintomatici” dello sfruttamento. Mente la condizione di sfruttamento è elemento tipico della condotta penalmente incriminata, gli indici, come ha osservato la sentenza sopraindicata, e come è chiaramente affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non fanno parte del fatto tipico; possono, invero, rilevare alla stregua di linee guida che, secondo le intenzioni del legislatore, orientano l’interprete nell’individuazione di condotte distorsive del mercato del lavoro, elemento centrale del reato contestato. La tipologia degli indici individuati dal legislatore – che hanno riguardo alla remunerazione, al tempo di lavoro, alle condizioni di salute e di sicurezza sul lavoro, ai metodi di sorveglianza e alle situazioni alloggiative – è la stessa che già la giurisprudenza aveva enucleato rispetto alla fattispecie di cui all’art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù) rispetto alla quale pure la condizione di sfruttamento contribuiva a descrivere il fatto tipico.
La Corte ha sottolineato che lo sfruttamento, sostanzialmente, si caratterizza per la violazione “reiterata” della normativa giuslavoristica posta a presidio dei diritti fondamentali del lavoratore. Vengono, in concreto, lese non solo la libertà di autodeterminazione e la dignità della persona, ma anche la libertà contrattuale, che si manifesta nella violazione di norme extrapenali poste a tutela della sua dignità, appunto, di lavoratore.
Il primo degli indici di sfruttamento lavorativo è rappresentato dalla “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali”; poiché non è più richiesta, https://naughtycamgirl.org a seguito delle modifiche apportate dalla legge n.199/2016, la sistematicità della condotta, deve ritenersi che si sia in presenza di sfruttamento lavorativo anche nella ipotesi in cui la mera ripetizione (sebbene limitata a pochi giorni) del comportamento è idonea a ledere la libertà e la dignità del lavoratore. Ancor più sintomatico è il caso della mancata corresponsione del pur misero salario promesso.
Il secondo indice di sfruttamento lavorativo concerne la “reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”. Anche qui non è più richiesta la sistematicità, per cui per la sussistenza della “reiterazione” della violazione potrà essere sufficiente la verifica compiuta in un arco temporale anche di pochi giorni.
Il terzo indice di sfruttamento lavorativo consiste nella “sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro”. Anche questo indice è stato modificato nella sostanza dalla L. n.199/2016, che ha espunto il requisito per cui la situazione di sfruttamento poteva essere accertata solo quando le violazioni della normativa in materia di sicurezza fossero tali da esporre il lavoratore ad un pericolo per la sua salute o la sua sicurezza o incolumità personale: abbassata la soglia di significatività penale del comportamento è ora sufficiente l’offesa alla dignità della persona.
Ai sensi del comma 3 dell’art. 603-bis c.p., costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di “una o più” delle condizioni sopra riportate. Orbene, nel caso oggetto dell’indicata sentenza i giudici hanno rappresentato la sussistenza, oltre che del primo “indice” della reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, anche della violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e della sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro degradanti. Vale evidenziare che i Carabinieri all’atto del loro intervento avevano riscontrato che ai lavoratori non erano stati forniti indumenti (quali i copricapo) adatti per sopportare ore di lavoro in pieno campo e sotto il sole e comunque adeguate calzature; nessuno di loro era stato sottoposto a visita medica prima di essere avviati al lavoro; non erano messi a loro disposizione gli opportuni punti di accesso all’acqua potabile; per il riposo meridiano essi avevano a disposizione soltanto un precario riparo, le cui miserevoli e antigeniche condizioni erano state messe in rilievo dai Carabinieri operanti. I lavoranti che portavano con loro il cibo lo consumavano in loco ed in particolare sotto una tenda in mezzo alla sporcizia
Quanto al requisito dello stato di bisogno, altra condizione imprescindibile per la configurazione del delitto, mette conto evidenziare che la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che lo stato di bisogno non può essere ricondotto alla mera impossibilità economica di realizzare qualsivoglia esigenza avvertita come urgente, ma deve essere riconosciuto soltanto quando la persona offesa, pur senza versare in stato di assoluta indigenza, si trovi in una condizione anche provvisoria di effettiva mancanza dei mezzi idonei, atti a far fronte alle esigenze primarie, e cioè quelle relative ai beni oggettivamente essenziali. In altri termini, versa in stato di bisogno il soggetto che si trovi in una situazione tale da compromettere fortemente la sua libertà contrattuale in ambito lavorativo. Ineccepibile, al riguardo, la definizione data in secondo grado, nel giudizio concluso con la citata sentenza della Cassazione, dalla Corte di Appello, che ne ha ritenuto la sussistenza, affermando che “lo stato di bisogno è la condizione di impellente assillo economico che, limitando la volontà del contraente debole, lo induce ad accettare condizioni contrattuali (non negoziabili) apertamente sperequate nei corrispettivi e ampiamente degradanti nelle modalità esecutive del lavoro”. Nel caso di specie quasi tutti i lavoranti erano rifugiati che vivevano ospiti di strutture di accoglienza e dunque affidati per la loro sopravvivenza alla pubblica assistenza; quelle strutture costituivano all’evidenza il serbatoio al quale l’imputato attingeva manodopera disposta, pur di racimolare qualche soldo e nella speranza di ottenere un regolare contratto, a sopportare condizioni di lavoro neppure proponibili sul normale mercato del lavoro.
Sotto un ultimo, diverso, aspetto vanno evidenziati i parametri in base ai quali è possibile determinare il profitto del reato, assoggettabile a sequestro e confisca. Si tratta, in generale, di stabilire, anche in via prudenziale ed equitativa, se i calcoli non possono essere precisi, quale è stato il risparmio di spesa reso possibile dall’espletamento del lavoro in condizioni di sfruttamento. Va dunque considerato il dato salariale, e cioè il risparmio rispetto alle somme che avrebbero dovuto essere erogate in base alle disposizioni dei contratti collettivi nazionali o locali, ma va anche considerato il risparmio di spesa conseguente alla mancata applicazione delle norme in tema di sicurezza e igiene sul lavoro, come ad esempio quelle relative sia alla fornitura di adeguati d.p.i. sia alla predisposizione di strutture adeguate al riposo nelle soste e al benessere dei lavoranti durante l’attività lavorativa. Inoltre, non si può trascurare che il mancato rispetto dell’orario di lavoro consente al datore di lavoro di “risparmiare” sulle assunzioni, impiegando nell’attività un numero di persone inferiore a quello che sarebbe stato invece necessario laddove ai dipendenti fosse stato consentito il rispetto delle 8 ore contrattuali. Tutti questi dati, ai quali possono nei singoli casi aggiungersene altri, vanno sommati, così da individuare il risparmio di spesa che costituisce il profitto del reato.