Cellulare: utilizzo prolungato e senza protezioni, l’inail risarcisce il danno da tumore
Un lavoratore aveva utilizzato per quindici anni un telefono cellulare per motivi di lavoro, determinando una forte esposizione, non protetta da alcuna cautela, alle relative radiofrequenze ed aveva quindi contratto una grave patologia tumorale, e cioè un neurinoma dell’acustico destro, che è un tumore che dal ramo vestibolare si espande andando a comprimere il settimo ed ottavo nervo cranico, con possibile compressione del cervelletto, del tronco encefalo e dei nervi cranici contigui.
Citava dunque in giudizio l’INAIL per vedersi riconoscere la malattia professionale, non tabellata, ed ottenere la condanna dell’istituto al pagamento dell’indennità prevista per legge in relazione alla percentuale di invalidità riconosciuta.
I giudici, sia di primo che di secondo grado, Tribunale di Ivrea e Corte di Appello di Torino, sulla base delle risultanze di tre consulenze medico legali esperite, riconoscevano la sussistenza di un nesso causale tra la patologia contratta e l’uso del cellulare per ragioni di servizio e condannavano, conseguentemente, l’INAIL al pagamento di quanto dovuto in base ai parametri normativi.
Le sentenze emesse vanno ad inserirsi nel trend giurisprudenziale che riconosce il diritto all’indennità in fattispecie siffatte; vanno citate la sentenza della Corte di Cassazione 12 ottobre 2012, n.17438 e la sentenza della Corte di Appello di Brescia del 22 dicembre 2012, n.17438, confermata dalla prima. La più recente fattispecie, decisa dai giudici piemontesi in senso favorevole al lavoratore, è però, a quanto consta, la prima in cui in entrambi i gradi di giudizio la domanda è stata accolta. Si può perciò forse parlare di un consolidamento del trend favorevole al riconoscimento del nesso causale tra attività lavorativa e malattia cancerogena per il lavoro ammalatosi dopo aver fatto uso prolungato, senza protezioni, del cellulare.
I presupposti che hanno determinato i giudici alla condanna dell’INAIL sono essenzialmente cinque: la lunghezza del periodo di esposizione alle radiofrequenze per effetto dell’utilizzo del cellulare: quindici anni, a partire dal 1995; l’intensità delle frequenze, dovuta all’impiego di cellulari ETACS, e quindi GSM 2G, con livelli di esposizione quasi 100 volte superiori a quelli dei più moderni cellulari; il dimostrato impiego del cellulare per una media di 2,33 ore al giorno, e dunque per complessive 12.600 ore circa; l’impiego del telefono, almeno nel monte ore appena indicato, per ragioni di servizio; l’inesistenza, all’epoca, di strumenti, come cuffiette o auricolari, idonei ad evitare il contatto diretto del telefono con il viso.
Il ragionamento dei giudici – in particolare nella sentenza della sezione lavoro della Corte di Appello di Torino del 14 gennaio 2020 – ha innanzi tutto evidenziato l’esigenza, in cause così particolari, di avvalersi dell’ausilio di consulenti tecnici non solo di indubbia competenza, ma anche di sicura affidabilità ed indipendenza, atteso che taluni studi scientifici che hanno escluso la cancerogenità da uso del telefono cellulare sono stati essenzialmente svolti da autori in potenziale conflitto di interesse, spesso non dichiarato, in quanto membri di associazioni direttamente o indirettamente finanziate dall’industria della telefonia. V’è ormai però una copiosa letteratura scientifica che afferma la sussistenza di un nesso causale tra esposizione a radiofrequenze da telefono cellulare ed insorgenza di una patologia tumorale, quale quella oggetto del giudizio di che trattasi.
Quanto all’accertamento del nesso di causalità, deve partirsi dalla considerazione che siccome si tratta di una malattia professionale non tabellare e ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro incombe al lavoratore e le relative risultanze devono essere valutate – alla stregua dell’orientamento consolidato della giurisprudenza civile sul punto – in termini di ragionevole certezza, escludendo la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale e dando, per contro, rilievo ai soli casi di rilevante grado di probabilità dell’esistenza di un legame tra attività lavorativa e patologia.
Va poi osservato che la sentenza della Corte di Appello di Torino, essendo stata emessa in un giudizio in cui era parte in causa solo l’INAIL e non il datore di lavoro (nella specie, Telecom spa) ha valutato il solo diritto del lavoratore ad ottenere l’indennità di natura assistenziale a copertura di quella parte del danno biologico che rientra nell’assicurazione obbligatoria.
Non si è occupata, in altri termini, della posizione e della responsabilità del datore di lavoro, che pur rilevano, in astratto, con riguardo al danno che esula dalla copertura assicurativa INAIL (cd. danno complementare) e, per altro verso, nel settore penale, con riferimento a possibili profili di colpa causalmente rilevanti nella produzione degli eventi lesivi costitutivi dei delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose.
Sia con riguardo alla responsabilità per danno complementare che con riferimento alla responsabilità penale deve essere comunque provato l’aspetto soggettivo della responsabilità (irrilevante nel giudizio a carico dell’INAIL, obbligato ex lege) e cioè il dolo o la colpa che rilevano in termini di responsabilità contrattuale nei confronti del lavoratore, tenuto a fornire la relativa prova, o, nel settore penale, la colpa, che rileva quale parametro dell’imputazione della responsabilità da reato, e che deve essere ovviamente provata dalla pubblica accusa.
Ma, se non altro alla stregua della disposizione di cui all’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro di adottare ogni possibile misura, alla luce della particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica (leggasi, conoscenze scientifiche) per tutelare l’integrità fisica del lavoratore, non è difficile rinvenire il parametro normativo di riferimento per individuare i possibili, e doverosi, margini di intervento preventivo del datore di lavoro e dunque possibili profili di colpa in caso di inazione o di azione inadeguata.
E’ dunque necessario che, qualora il datore di lavoro fornisca al proprio dipendente un telefono cellulare da impiegare per ragioni d’ufficio, ovvero abiliti il dipendente all’utilizzo del proprio telefono per le medesime ragioni, si accerti innanzi tutto di quali siano l’intensità e le caratteristiche delle emissioni del telefono e poi fornisca necessariamente gli strumenti (auricolari, cuffiette o altro) che, alla luce delle caratteristiche dello strumento impiegatoed alla stregua delle cognizioni tecniche del momento, si rivelino maggiormente idonei a tutelare il lavoratore dal rischio di insorgenza di patologie.
Più nel dettaglio, devesi ritenere che venga anche in gioco la regolamentazione di prevenzione in tema di DPI, con la centrale disposizione di cui all’art.77 del d.lgs. n. 81/2008 in tema di obblighi del datore di lavoro e, in particolare, circa la valutazione dei rischi, l’individuazione delle caratteristiche dei DPI pertinenti, l’aggiornamento delle scelte, l’informazione e la formazione dei lavoratori. Ma è di indubbio rilievo anche la previsione del successivo art. 78, circa gli obblighi dei lavoratori in tema di impiego e cura dei DPI messi a loro disposizione. Come pure è indispensabile che il datore di lavoro, così come avviene per qualsiasi misura di protezione del lavoratore, vigili, attraverso i proprio collaboratori, circa il corretto ed effettivo impiego delle misure di protezione e ne pretenda comunque l’utilizzo da parte dei lavoratori esposti a rischi. Gli auricolari e le cuffiette protettive, ovvero altre forme di protezione, hanno una precipua funzione di prevenzione e non possono dunque che essere ricondotti alla specifica normativa in tema di DPI.