Grandi imprese e sicurezza: se le esigenze non sono conciliabili ora "forse" prevalgono le seconde
Con un precedente editoriale pubblicato su questo sito (intitolato “Grandi imprese e sicurezza: se le esigenze non sono conciliabili prevalgono quelle delle prime….”) si aveva avuto modo di criticare i contenuti delle disposizioni normative emanate a seguito dell’intervenuto sequestro giudiziario dello stabilimento ILVA di Taranto. Si era, in particolare, sottolineato come il dettato normativo avesse decisamente virato in favore degli interessi imprenditoriali – ed in particolare di quelli sottesi all’attività di detto stabilimento – ritenuti di fatto, stante il tenore delle disposizioni normative, meritevoli di considerazione preminente rispetto al tema della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori occupati in detti stabilimenti.
Invero, il cd. decreto Ilva del 2015 (art. 3 del DL 92 del 2015, abrogato e riprodotto in maniera identica con l’art. 21-octies – intitolato “misure urgenti per l'esercizio dell'attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario” – della legge 6 agosto 2015, n.192, di conversione del D.L. 27 giugno 2015, n.83, che recava “misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria”) consentiva la prosecuzione dell'attività dell'Ilva nonostante il provvedimento di sequestro preventivo dell'autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori. La norma stabiliva – con una statuizione di carattere generale, ovviamente non circoscritta al caso ILVA – che per «garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché della finalità di giustizia, l'esercizio dell'attività di impresa degli stabilimenti di interessi strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro … quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori», purchè venga predisposto entro un mese un «piano ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell'autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati». La norma era dunque intervenuta sul delicatissimo tema della conciliabilità delle esigenze produttive delle grandi imprese con la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ma aveva generato forti perplessità circa il rispetto del dettato costituzionale dell’art. 41 Cost., che, come è noto, impone garanzie e limiti all’attività d’impresa, in modo da salvaguardare beni insopprimibili, come la salubrità dell’ambiente e la salute delle persone occupate o comunque potenzialmente coinvolte dagli effetti dell’attività d’impresa. Invero, a tutela delle grandi imprese, e cioè quelle che esercitano l’attività in “stabilimenti di interesse strategico nazionale”, il legislatore dettava una norma in grado, nella sostanza, di porre nel nulla i provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria (i sequestri) consentendo la prosecuzione dell’attività sequestrata sulla base di semplici indicazioni, per così dire “prevenzionistiche”, dell’imprenditore, sottratte ad un esame, che fosse vincolante nell’esito, non solo da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche da parte dell’autorità amministrativa.
Nel precedente editoriale si erano evidenziate le grandi perplessità destate dalle condizioni cui la norma subordinava la possibilità di continuare l’attività d’impresa, nonostante il sequestro. Era, infatti, all’uopo sufficiente che l'impresa predisponesse, “nel termine perentorio di trenta giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attivita' aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro. L'avvenuta predisposizione del piano e' comunicata all'autorita' giudiziaria procedente”. Disponeva ancora il quarto comma che il piano fosse “trasmesso al comando provinciale dei vigili del fuoco, agli uffici dell'azienda sanitaria locale e dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) competenti per territorio per le rispettive attivita' di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure e delle attivita' aggiuntive previste nel piano”. Il piano non doveva dunque essere sottoposto all’esame dell’autorità giudiziaria, o delle altre autorità amministrative indicate, le quali non avevano perciò la possibilità di vietare la continuazione dell’attività quanto meno qualora il piano si dimostrasse palesemente inefficace o inidoneo.
Da più parti si erano messi in luce i profili di illegittimità costituzionale prospettabili a proposito della nuova norma: dalla violazione del principio di uguaglianza (art. 3; il beneficio giova solo agli stabilimenti più grandi) alla lesione della tutela del diritto alla salute (art.32; non v’è alcun controllo sulle misure che, secondo l’imprenditore, servirebbero a garantire di più la sicurezza dei lavoratori); dalla violazione dei limiti costituzionali posti alla libertà d’impresa (art. 41; la sicurezza, la libertà, la dignità umana possono recedere a fronte dell’interesse alla continuazione dell’impresa) alla violazione dei limiti del procedimento di conversione del decreto legge (art.77; la legge di conversione non può disciplinare materie non regolamentate dal decreto).
Per la verità, già prima dell’emanazione della normativa citata la Corte Costituzionale aveva dato una lettura del precetto costituzionale che in qualche misura circoscriveva i contorni della prevalenza degli interessi legati alla salute a all’ambiente rispetto a quelli d’impresa. Invero, con la sentenza, n. 85 del 2013, sempre relativa all’ILVA, la Corte aveva segnalato l’esigenza di «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all'ambiente salubre, e al lavoro (art. 35 Cost.) da cui deriva l'interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso», precisando, subito dopo, che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre "sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro" (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Occorre, invece, secondo la Corte del 2013, garantire «un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come "primari" dei valori dell'ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto». La citata sentenza aveva però giudicato conforme al precetto costituzionale la normativa del 2012 sottoposta al suo vaglio.
Ma assai di recente, a proposito della normativa del 2015 dapprima citata, si è verificato un interessante mutamento di rotta nella giurisprudenza costituzionale rispetto alla richiamata sentenza n. 85 del 2013, posto che la Corte ha rimarcato con forza il ruolo fondamentale del diritto alla salute in seno alla nostra Costituzione.
Si tratta della sentenza n.58 del 25 marzo 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del DL 92 del 2015 e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n.192, di conversione del D.L. 27 giugno 2015, n.83.
Se si volesse riassumere in pochissime battute il portato della più recente sentenza si potrebbe dire, come altri hanno già fatto, che la stessa contiene alcuni passaggi «particolarmente significativi nell'ottica dello smantellamento della tanta declamata, quanto fittizia, contrapposizione tra le ragioni dell'economia e le ragioni del diritto, o meglio ancora, dei diritti della persona. Contrapposizione fittizia, perché già risolta dal legislatore costituente, anche se a volte abbiamo finito per trascurare o rimuovere tale dato» sembra infatti che possa parlarsi di un inizio di ripensamento della Corte proprio a proposito dei rapporti tra diritto alla salute e diritto al lavoro. Può dirsi, in altre parole, che venga riaffermata la centralità del disposto dell'art. 41 della Costituzione che, in realtà, quando si parla di salute, non privilegia alcun bilanciamento e afferma, senza ombra di dubbio, che le esigenze economiche e produttive non possono mai prevalere sul diritto alla salute. In altri termini, come affermato nel decreto di sequestro preventivo emesso il 25 luglio 2012 dal gip del Tribunale di Taranto «la nostra Carta Costituzionale prevede una serie di diritti che hanno una caratteristica costante e cioè quella di una possibile comprimibilità nell'ipotesi in cui si scontrano con altri diritti ugualmente riconosciuti e tutelati (diritto di proprietà, domicilio, libertà nelle sue diverse forme, ecc.); tuttavia il diritto che non accetta contemperamenti o compressioni di sorta è il diritto alla vita e quindi alla salute. Di fronte a tale fondamentale diritto tutti gli altri devono cedere il passo, anche il diritto al lavoro. Nel caso che ci occupa ragionando diversamente si arriverebbe all'assurdo giuridico di operare delle comparazioni fra il numero di decessi accettabili in relazione al numero di posti di lavoro assicurabili: le più elementari regole di diritto e soprattutto del buon senso vietano un simile ragionamento».
E dunque, osserva ora la Corte Costituzionale, nel provvedimento legislativo del 2015 «manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l'incolumità dei lavoratori. Tale mancanza è tanto più grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine per la redazione del piano di sicurezza è espressamente consentita la prosecuzione dell'attività d'impresa "senza soluzione di continuità", sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato».
Appare chiaro, quindi, — conclude la Corte — «che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)».
E dunque la sentenza del 2018, pur non sconfessando la precedente sentenza del 2013, tratta il problema in modo ben diverso, privilegiando, nella motivazione, non tanto bilanciamenti e compromessi quanto la fondamentale importanza del diritto alla salute: «il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all'attività d'impresa la quale, ai sensi dell'art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l'attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona. In proposito la Corte ha del resto già avuto occasione di affermare che l'art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso "limita espressamente la tutela dell'iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la 'sicurezza' del lavoratore" (sentenza n. 405 del 1999). Così come è costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori (sentenza n.399 del 1996)».
Ma, in realtà, la sentenza del 2018 lascia comunque aperta la strada ad un’ampia tutela dell’attività produttiva configgente con il diritto alla salute ed all’ambiente salubre (tutela da attuarsi, beninteso, con disposizioni normative ben diverse da quelle di cui è stata affermata l’illegittimità) allorquando afferma, nella sostanza, che l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva può essere privilegiato sul diritto alla salute, purché tale privilegio non sia "eccessivo" e il diritto alla salute non venga "trascurato del tutto".
La nuova pronuncia dei giudici di legittimità, infatti, condivide quanto affermato dalla precedente sentenza del 2013, a proposito del fatto che non può ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa. Ribadisce anche che ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (così le sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012).
Affermando dunque che il legislatore del 2015 non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita, la Corte lascia comunque aperta la strada a valutazione del legislatore che, congruamente motivate ed esplicitate nella disciplina dettata, non finiscano col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.).
Quanto, peraltro, tale possibilità di prevalenza dell’attività d’impresa sia rispettosa del principio dell’art. 41 Cost., che giudica invece primaria l’esigenza di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, è questione di fondamentale importanza, rispetto alla quale neppure la più recente sentenza della Corte lascia del tutto tranquilli.