Grandi imprese e sicurezza: se le esigenze non sono conciliabili prevalgono quelle delle prime
Il tema della conciliabilità delle esigenze produttive delle grandi imprese con la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori è noto quanto alla sua complessità e delicatezza. Da un lato l’esigenza di incrementare la produzione (e dunque l’occupazione della forza lavoro) cercando di contenere i costi dei grandi impianti; dall’altro la salvaguardia della salute dei lavoratori occupati e quindi la necessità di adottare a tal fine cautele spesso onerose.
Parimenti noto è peraltro anche lo strumento che, in uno stato di diritto, deve presiedere al tentativo di conciliare le due esigenze: sono le disposizioni normative che, muovendo dal rispetto del dettato costituzionale, indicano, ed impongono, garanzie e limiti all’attività d’impresa, in modo da salvaguardare beni insopprimibili, come la salubrità dell’ambiente e la salute delle persone occupate o comunque potenzialmente coinvolte dagli effetti dell’attività d’impresa.
E la verifica circa la rispondenza o meno delle modalità di esercizio di singole attività d’impresa alle pertinenti disposizioni normative compete, sempre in uno stato di diritto, all’autorità giudiziaria, le cui decisioni possono essere certamente contestate, ma, “di solito”, non messe nel nulla con un atto d’imperio.
Ma i tempi cambiano e le esigenze d’impresa, in un periodo di crisi economica, assumono maggiore rilievo, e vigore, tanto da non poter tollerare – almeno quando si tratti di imprese che assumono un interesse nazionale – battute d’arresto ad opera di provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria. Ecco dunque che, a tutela delle grandi imprese, quelle che esercitano l’attività in “stabilimenti di interesse strategico nazionale”, interviene il legislatore con una norma, a valenza generale e non episodica, che potrebbe servire, nella sostanza, a porre nel nulla i provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria (per intenderci, i sequestri) consentendo la prosecuzione dell’attività sequestrata sulla base di semplici indicazioni, per così dire “prevenzionistiche”, dell’imprenditore, sottratte – è questo il punto più rilevante – ad un esame, che sia vincolante nell’esito, non solo da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche da parte dell’autorità amministrativa.
La prima norma in tal senso era quella dell’art.3 del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92 ed era stata comunemente intesa come norma finalizzata a paralizzare gli effetti del sequestro giudiziario dello stabilimento della ILVA di Taranto. Ma il legislatore è andato oltre: impugnata la norma avanti alla Corte Costituzionale dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Taranto e decaduto il decreto per mancata conversione, ecco il legislatore intervenire ex novo con una norma che ripete il contenuto di quella decaduta e si colloca in una legge di conversione di un decreto legge (il n.83/2015) che nulla prevedeva al riguardo.
Invero, con l’art. 21-octies (intitolato “misure urgenti per l'esercizio dell'attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario”) della legge 6 agosto 2015, n.192 (entrata in vigore il 21 agosto) che ha convertito il D.L. 27 giugno 2015, n.83 (che recava “misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria”) si è stabilito – a conferma della norma decaduta – che “al fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché' delle finalità di giustizia, l'esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non e' impedito dal provvedimento di sequestro… OMISSIS…quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori”. Stabilisce ancora la nuova norma che l’attività d’impresa non possa protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro.
Ma quel che più stupisce sono, come si accennava, le condizioni a cui è subordinata la possibilità di continuare l’attività d’impresa, “in barba”, verrebbe da dire, al sequestro. E’, infatti, all’uopo sufficiente che l'impresa predisponga, “nel termine perentorio di trenta giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro.
L'avvenuta predisposizione del piano è comunicata all’autorità giudiziaria procedente”. Dispone ancora il quarto comma che il piano sia “trasmesso al comando provinciale dei vigili del fuoco, agli uffici dell'azienda sanitaria locale e dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) competenti per territorio per le rispettive attività di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l'attuazione delle misure e delle attività aggiuntive previste nel piano”.
Nulla, dunque, che dica che il piano debba essere sottoposto all’esame dell’autorità giudiziaria, o delle altre autorità amministrative indicate, nulla che consenta a tali autorità di vietare la continuazione dell’attività quanto meno qualora il piano si dimostri palesemente inefficace o inidoneo!
In questo senso la nuova norma si discosta da quanto già previsto dall'articolo 1, comma 4, del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito nella legge 24 dicembre 2012, n. 231, a mente del quale, sempre in caso di stabilimento di interesse strategico nazionale, l’esercizio dell’attività d’impresa oggetto di un provvedimento di sequestro poteva continuare, per il caso di necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, sulla base delle misure e prescrizioni indicate dal Ministero dell’ambiente in sede di riesame dell’autorizzazione integrata ambientale. Stupisce invece che la norma da ultimo citata sia menzionata nell’art. 21-octies, a “supposta” conferma delle nuove disposizioni (“come già previsto dall'articolo 1, comma 4, del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207….”!!).
Ebbene, secondo la nuova norma è la stessa impresa che indica le misure e le condizioni “aggiuntive” che intende adottare, anche solo provvisoriamente, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro; l’autorità giudiziaria non può che prenderne atto, e revocare il sequestro, mentre le autorità amministrative titolari del potere di vigilanza in tema di sicurezza non possono che monitorare l’attuazione delle misure indicate dall’impresa, anche se – viene da pensare – le ritengano totalmente irrilevanti.
E che la volontà del legislatore sia stata quella di lasciare all’assoluta potestà dell’impresa la scelta di continuare l’attività è ben evidente, posto che la norma non sarebbe stata necessaria qualora si fosse inteso subordinare il dissequestro alla presentazione ed attuazione di un efficace piano di sicurezza, sottoposto all’esame dell’autorità giudiziaria; tale evenienza è, invero, fisiologica con riferimento all’attuazione di ogni provvedimento di sequestro, dovendo lo stesso essere necessariamente revocato laddove ne vengano meno i presupposti, e cioè la situazione di pericolo che il provvedimento mirava a cautelare.
La portata retroattiva della nuova norma è poi definita dal quinto comma della stessa, laddove si stabilisce che “le disposizioni della norma stessa si applicano anche ai provvedimenti di sequestro già adottati alla data di entrata in vigore del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92”, e cioè quello decaduto per mancata conversione; i termini di trenta giorni per la predisposizione del piano e di dodici mesi per la continuazione dell’attività d’impresa decorrono dalla data di entrata in vigore del citato decreto.
I profili di illegittimità costituzionale prospettabili a proposito della nuova norma sono tanti: dalla violazione del principio di uguaglianza (art. 3; il beneficio giova solo agli stabilimenti più grandi) alla lesione della tutela del diritto alla salute (art.32; non v’è alcun controllo sulle misure che, secondo l’imprenditore, servirebbero a garantire di più la sicurezza dei lavoratori); dalla violazione dei limiti costituzionali posti alla libertà d’impresa (art. 41; la sicurezza, la libertà, la dignità umana possono recedere a fronte dell’interesse alla continuazione dell’impresa) alla violazione dei limiti del procedimento di conversione del decreto legge (art.77; la legge di conversione non può disciplinare materie non regolamentate dal decreto).
Ma quel che più spaventa è il palese intento del legislatore (ora non più solo del Governo) di superare decisioni giudiziarie scomode per le grandi imprese con norme che attribuiscono alle imprese stesse la potestà di indicare le misure (di fatto sottratte a controllo) ritenute sufficienti per ovviare ai pericoli fronteggiati con il provvedimento giudiziario.
Il tutto, ovviamente (e ci mancherebbe) in una prospettiva formale di tutela della sicurezza del lavoro, ma, in concreto, in un’ottica di prevalenza delle esigenze della grande industria.