Infortunio per malore: non sempre c’e’ qualcosa da rimproverare al datore di lavoro

L’esperienza giudiziaria porta a riscontrare che in occasione di moltissimi (anzi, nella stragrande maggioranza) di infortuni ai lavoratori è dato ravvisare, se non altro alla stregua di una interpretazione rigorosa della sterminata normativa di prevenzione, un profilo di colpa, generica o specifica, in capo al datore di lavoro o ai suoi collaboratori, tale da costituire un antecedente causale, giuridicamente rilevante in termini di responsabilità, dell’evento lesivo. Giurisprudenza e dottrina avvertono però che affinchè la colpa possa considerarsi rilevante ed efficiente rispetto alla determinazione dell’evento è pur sempre indispensabile accertare che sia configurabile un giudizio di rimproverabilità con riferimento alla condotta, per lo più omissiva, del soggetto obbligato all’osservanza delle norme di prevenzione; in difetto di una valutazione siffatta si correrebbe il rischio di sfociare in un giudizio di responsabilità oggettiva, estraneo al nostro ordinamento giuridico penale.

E tale esigenza viene in rilievo anche nel caso, invero particolare, deciso dalla recente sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 12 marzo 2021, n. 9824 (udienza 9 dicembre 2020) relativa al decesso di un operaio edile per un colpo di calore durante lo svolgimento di lavori in quota: il datore di lavoro è stato invero assolto per mancanza di qualsivoglia profilo di colpa, specifica e generica. Il decesso del lavoratore era avvenuto per collasso delle funzioni cardiorespiratorie, derivante da colpo di calore, associato a vasodilatazione indotta dalla significativa assunzione di alcool. Al datore di lavoro, condannato dai giudici di merito, era contestato di aver posto in essere antecedenti fattuali eziologicamente rilevanti rispetto al decesso, in quanto aveva omesso di valutare i rischi derivanti dai danni da calore, inerenti alle attività svolte in ambiente aperto in periodo estivo, in condizioni climatiche avverse determinate da alte temperature, non impedendo al lavoratore di prestare attività, né di assumere bevande alcoliche, pur nella consapevolezza dell’abitudine da parte del medesimo di bere ¼ di litro di vino al giorno, come risultante dalla visita medico periodica antecedente, ed aveva, per altro aspetto, trascurato di verificare l’uso di dispositivi individuali ed in particolare il copricapo protettivo per la protezione contro la calura estiva.

La Corte censura la valutazione dei giudici di merito e muove il proprio percorso argomentativo dalla lettura dell’art. 111 comma 7 del d. lgs. 81/2008, osservando che la previsione normativa, che collega l’attività di verifica del datore di lavoro alle condizioni meteorologiche, fonda il dovere di limitare l’attività in modo da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori in condizioni di tempo avverse proprio al caso di opera prestata in quota. E ciò, perché il lavoro svolto ad un’altezza superiore ai due metri da un piano stabile espone maggiormente il lavoratore a situazioni quali il vento, la pioggia la neve o la nebbia e comunque ad ogni circostanza meteorologicamente sfavorevole, condizionando l’equilibrio e la stessa attenzione del lavoratore e favorisce il verificarsi di condizioni di pericolo. Ma nella specie il lavoratore si trovava a lavorare in piano, in condizioni di totale stabilità ed in assenza di una situazione metereologica avversa, per cui la Corte ha escluso la ricorrenza della colpa specifica, per violazione dell’art. 111, comma 7, del d.lgs. 81/2008, ed è passata a verificare la sussistenza di un’ipotesi di colpa generica. Entrambe le sentenze di merito, infatti, addebitavano al datore di lavoro di non avere impedito all’operaio di lavorare nelle ore più calde della giornata e, particolarmente, nel primo pomeriggio, quando la temperatura raggiungeva i 34° gradi centigradi. Si trattava dunque di un rimprovero di negligenza ed imprudenza, che presuppone la violazione della regola cautelare sostanzialmente rinvenuta nella necessità di valutare in concreto la compatibilità delle condizioni atmosferiche con l’attività svolta, in modo da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori. Ma, ha osservato la Corte, una simile generalissima norma di diligenza e prudenza deve senza dubbio connotare la condotta del datore di lavoro, ma proprio per il suo contenuto generico occorre che essa sia ancorata a parametri di prevedibilità individuabili da colui sul quale incombe l’apprezzamento, posto che, altrimenti, si incorre nel rischio di trasformare la valutazione sulla conciliabilità fra condizioni atmosferiche ed attività lavorativa in un giudizio ex post. E ciò, da un lato, per la variabilità delle reazioni individuali alle situazioni climatiche e, dall’altro, perché il prodursi di un evento avverso deve essere pronosticabile dal datore di lavoro. Precisa dunque la Corte che “per elidere la vaghezza di un simile norma comportamentale, tenendo presente la pluralità dei fattori che determinano la condizione meteorologica sfavorevole, non dipendente solo dalla temperatura (o, per ipotesi, dalla presenza di precipitazioni), ma anche dal vento, dall’umidità dell’aria, dalla tipologia dell’area interessata, occorre che, in concreto, il datore di lavoro possa riferirsi ad un quadro meteorologico valutato in modo tecnico e non empirico ed individualistico, che tenga conto dei fattori generali e di quelli specifici e che sia sintetizzato in una previsione che, laddove determinati valori soglia siano superati in quel preciso contesto territoriale, implichi il rispetto di una serie di raccomandazioni generali impartite dall’autorità competente sul comportamento da tenere in simili condizioni climatiche. Agevola l’individuazione del contenuto della regola cautelare il riferimento alle situazioni di ‘allerta meteo’ del Dipartimento della protezione civile, ma possono essere tenute in considerazione anche altre forme di allertamento, eventualmente locale, con cui venga reso noto che una determinata condizione climatica prevista potrà comportare problemi per la salute”.

Nel caso di specie, al contrario, si contestava al datore di lavoro semplicemente di non avere sospeso l’attività lavorativa in una giornata calda, consentendo che il lavoratore riprendesse il lavoro nel primo pomeriggio, nonostante una temperatura di 34° centigradi, ritenuta dai giudici del merito di per sé incompatibile con lo svolgimento di lavori edili, senza che ciò avesse trovato alcun riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto senza che una simile affermazione trovasse aggancio in una condizione di allerta meteorologica giustificante l’astensione dalle attività fisiche e lavorative all’aperto.

Va, in proposito, anche condiviso quanto ulteriormente puntualizzato dalla Corte, e cioè che laddove si dovesse giungere ad un’affermazione come quella contenuta nelle sentenze di condanna si dovrebbe affermare che in tutta la zona meridionale d’Italia durante la stagione estiva è interdetta, in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno sforzo fisico all’aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il che è pacificamente contraddetto dai risultati dell’esperienza, che insegna che in casi siffatti non vi è una condizione di rischio generalizzato.

Ma anche sotto un diverso aspetto la pronuncia in commento ha posto opportuni paletti in tema di verifica, in concreto, dell’esistenza di profili di addebito al datore di lavoro, collegati all’omesso impedimento di una situazione di pericolo dallo stesso effettivamente conosciuta e fronteggiabile. L’ulteriore addebito mosso al datore di lavoro nel processo in esame era, infatti, relativo alla mancata vigilanza sull’uso del copricapo da parte del lavoratore; si era però accertato che l’elmetto era stato fornito al lavoratore, mentre il medesimo, dopo avere ingerito un consistente quantitativo di alcool aveva deliberatamente scelto di non indossarlo.

Ebbene, la Corte ha confermato il proprio indirizzo interpretativo, alla stregua del quale in caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al datore di lavoro – o a colui eventualmente preposto – sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva.

Non si tratta – è bene osservare – di un ragionamento garantista, ma di un ragionamento solidamente ancorato a principi giuridici in tema di rimproverabilità della condotta e di prevedibilità del rischio, e dunque di un’applicazione puntuale di principi essenziali in tema di causalità della colpa.

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