La causalita’ in concreto tra infortunio e decesso del lavoratore

Molto spesso nei processi per infortunio sul lavoro la questione relativa all’accertamento del nesso di causalità tra l’infortunio e il decesso del lavoratore riveste carattere marginale. A differenza, infatti, di quanto avviene nei processi per malattia professionale, nei quali l’accertamento del rapporto causale tra prestazione lavorativa non protetta e decesso costituisce spesso il nucleo centrale della controversia, nei processi per infortunio vi è sovente una conseguenzialità immediata tra l’infortunio e la morte, oppure quest’ultima segue il primo di pochi giorni, senza che sia quindi concretamente ipotizzabile una concorrente responsabilità dei sanitari che hanno avuto in cura il lavoratore. Non vi sono quasi mai, in altre parole, seri dubbi circa la riconducibilità del decesso del lavoratore in via esclusiva all’infortunio occorso nell’espletamento della prestazione lavorativa, per cui il tema del decidere si incentra essenzialmente sulla verifica della configurabilità di profili di colpa nell’operato del datore di lavoro (e/o dei suoi collaboratori) che siano causalmente efficienti nella determinazione del decesso.

Ma può accadere, in talune ipotesi, che trascorra un considerevole lasso di tempo tra l’infortunio e la morte, periodo che magari il lavoratore trascorra in ospedale, senza che le cure prestategli abbiano successo; in questi casi, ferma restando la causa remota del decesso nell’infortunio occorso, è però possibile che nel percorso causale che arriva al decesso si innestino altri fattori (come, ad esempio, il sopravvenire di altre patologie o la negligenza dei medici) per cui è indispensabile verificare se si tratti di concause rispetto al decesso, che mantengono quindi ferma la rilevanza causale dell’infortunio, aggiungendosi ad essa, ovvero si tratti di cause sopravvenute che abbiano una rilevanza autonoma ed esclusiva nella determinazione dell’exitus, facendo così venir meno la rilevanza giuridica dell’infortunio, che viene ad assurgere al ruolo di mera occasione ma non già causa del decesso.

Nel nostro ordinamento vigono invero, in tema di rapporto di causalità, le previsioni dell’articolo 40 del codice penale (per cui “”nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”) e dell’art. 41 del medesimo codice (per cui, se è vero che “il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l’evento” – primo comma – è altresì vero che “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando siano state da sole sufficienti a determinare l’evento” – secondo comma, applicabile anche nel caso in cui “la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui “ – terzo comma).

Emblematica delle implicazioni giuridiche che possono insorgere nei casi in cui la morte segua a distanza di tempo dall’infortunio è la vicenda oggetto del procedimento concluso con la sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 20 aprile 2022, n. 15155 (udienza 26 gennaio 2022).

Il datore di lavoro era stato riconosciuto, nei primi due gradi di giudizio, colpevole rispetto all’ipotesi di omicidio colposo relativa al decesso di un lavoratore in conseguenza, secondo l’accusa, di un infortunio sul lavoro, avvenuto quattro anni prima del decesso, allorquando il lavoratore, intento a scaricare casseformi da un TIR, era stato travolto da una di esse. La responsabilità relativa alla violazione delle norme di sicurezza era risultata palese, ma nel giudizio di Cassazione si faceva questione anche della possibilità di considerare, o meno, il decesso quale evento riconducibile, in via esclusiva o comunque concorrente all’infortunio, ad altra causa, alla stregua delle disposizioni del codice penale dapprima riportate. La difesa contestava infatti che i giudici di merito avevano ritenuto l’evento morte conseguenza diretta dell’infortunio, senza svolgere alcuna indagine medico-scientifica, mentre, in assenza di esame autoptico, la documentazione medica acquisita non poteva essere sufficiente per affermare la correlazione fra l’infortunio ed il decesso. Va segnalato, al riguardo, che la morte era intervenuta per arresto cardiocircolatorio, e che dopo l’infortunio l’operaio era sempre rimasto in una situazione di coma vegetativo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto necessario, per dare soluzione al quesito posto con il ricorso, affrontare il tema della verifica dell’imputazione causale dell’evento, riferito, in questo caso, all’evento morte, non essendo contestato che la condotta del ricorrente avesse cagionato le gravissime lesioni riportate dalla persona offesa e dopo quattro anni esitate nel decesso.
La sentenza ha dunque osservato che il punto di approdo cui è giunta la giurisprudenza della Corte è segnato dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, secondo cui il nesso causale va ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato. Nella specie la condotta doverosa era rappresentata dall’osservanza delle norme di prevenzione, che, invece, erano state violate. Va, nondimeno, precisato che l’ipotesi accusatoria circa la sussistenza del nesso causale non può trovare automatica conferma solo nella considerazione del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze specifiche del fatto, in modo che all’esito del ragionamento probatorio, una volta esclusa l’interferenza di fattori eziologici alternativi di produzione dell’evento, risulti provato che l’evento ha trovato la propria causa determinatrice  nella condotta colposa (Sez. U, Sentenza n. 30328 del 10/07/2002, Franzese; Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, Cazzini; Sez. U, sentenza n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, sul caso Thyssenkrupp). Il riscontro della ricorrenza del nesso causale fra la condotta dell’imputato e l’evento deve, dunque, operarsi attraverso un doveroso giudizio controfattuale, ovverosia quell’operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio (il decesso) sarebbe egualmente accaduto; con la conseguenza che nell’ipotesi di indifferenza della condotta nella produzione dell’evento, deve escludersi che essa ne costituisca una causa, mentre, al contrario, laddove senza quella condotta l’evento non si sarebbe prodotto essa è condizione causale dell’evento.

Nel caso di specie, il nodo da sciogliere -essendo indubbio che l’infortunio produsse nella vittima uno stato di coma vegetativo- riguardava esclusivamente il decesso, collocatosi ad anni di distanza dalla condotta, e coincideva con la verifica della possibile sussistenza di una serie causale alternativa, innescante un rischio nuovo e diverso da quello attivato dalla condotta. E ciò, perché l’eventuale diversità dei rischi interrompe e separa la sfera di responsabilità del garante (datore di lavoro) dall’evento prodottosi, quando una qualunque circostanza -in questo caso l’eventuale instaurarsi di una patologia del tutto indipendente dalle lesioni riportate – radicalmente esorbitante rispetto al rischio che egli è chiamato a governare, inneschi una nuova ed autonoma serie causale.
La Corte ha quindi obiettato che i giudici di merito avevano del tutto pretermesso l’accertamento della causa della morte del lavoratore, facendo derivare unicamente dallo stato di coma vegetativo, conseguente l’infortunio, l’evento ascritto all’imputato, senza indagare quale patologia avesse materialmente condotto la persona offesa al decesso, avvenuto a distanza di oltre quattro anni dall’incidente, né il collegamento con le lesioni riportate in quella occasione. Si tratta di un’indagine indispensabile, che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado, non smentito sul punto dalla Corte di appello, non può incombere sull’imputato, al quale non compete l’onere di dimostrare la sussistenza di una serie causale alternativa, essendo la prova del collegamento fra la condotta e la morte onere specifico dell’accusa.

La sentenza è stata perciò annullata con rinvio per un nuovo giudizio ad altro giudice di appello.
Una volta precisata, quindi, la necessità di apposita verifica circa l’esistenza, o meno, di una causa alternativa autonomamente ed interamente rilevante, va precisato che, qualora venga accertato che l’inosservanza delle disposizioni antinfortunistiche rappresenta la causa delle lesioni, per il principio dell’equivalenza delle cause il nesso eziologico tra tale inosservanza ed il successivo decesso viene meno solo se si accerti che esso è stato interrotto da un fattore di per sé solo sufficiente a produrre l’evento. E se tale può indubbiamente essere una nuova malattia, originatesi in modo autonomo rispetto a quella riconducibile all’infortunio sul lavoro, altrettanto non può dirsi non solo per il caso di malattia che comunque rappresenti un’evoluzione peggiorativa rispetto alla malattia determinata dall’infortunio, ma, in linea di massima, anche nel caso in cui si ravvisi un profilo di colpa nell’operato dei medici che hanno avuto in cura l’infortunato. Come precisato, infatti, dalla sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, n.41943 del 21.12.2006 (udienza 4.10.2006) la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al comportamento dell’agente, perché questi, provocando il primo evento lesivo (le lesioni) ha reso necessario l’intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un’ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale. Specificando il proprio assunto, la sentenza da ultimo citata ha poi precisato che se si può eventualmente escludere il nesso di causa in situazioni di colpa commissiva (cioè in un comportamento attivo ed errato dei medici), al contrario, nel caso di omissione di terapie che dovevano essere applicate per impedire le complicanze della malattia originaria, l’errore del medico non può prescindere dall’evento/infortunio che ha fatto sorgere la necessità della prestazione sanitaria, per cui la catena causale resta integra. Il giudizio da compiere avendo come parametro interpretativo le citate disposizioni del codice deve essere, perciò, particolarmente penetrante ed accorto, con riguardo a tutte le caratteristiche del caso concreto ed in particolare alla prevedibilità o meno della causa sopravvenuta.

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