La riforma del caporalato: ma il legislatore pondera sempre quello che scrive?

La triste piaga del caporalato interessa nel nostro paese non solo il lavoro nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento, ma anche quello proprio di taluni comparti dell’industria, come, in particolare, il settore tessile. Il legislatore aveva inteso, nel 2011, approntare al riguardo uno strumento sanzionatorio di estremo rilievo, introducendo nel codice penale l’art. 603 bis, volto ad approntare una reazione assai severa nei confronti di condotte che non potevano ricondursi a fenomeni criminali quali la tratta o la riduzione in schiavitù, ma non potevano nemmeno trovare tutela nell’ambito della regolamentazione del mercato del lavoro. Con la nuova norma si era perciò stabilita la sanzione della reclusione da cinque a otto anni e della multa da 1000 a 2000 euro per ciascun lavoratore reclutato a carico di “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.

L’inadeguatezza della nuova previsione normativa era stata fin da subito ravvisata nel fatto che la stessa, appuntando la reazione sanzionatoria sull’intermediario, lasciava in ombra la figura del datore di lavoro, che è invece colui che, anche in concorso con l’intermediario, viene di fatto a sfruttare il lavoro altrui. Per altro verso si era osservato che lo sfruttamento assumeva rilievo penale solo se attuato mediante violenza, minaccia o intimidazione, lasciando così fuori dall’area del penalmente rilevante fenomeni di sfruttamento caratterizzati dall’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, mediante azioni di induzione e persuasione.

Di qui l’esigenza di approdare, dopo soli cinque anni, ad una modifica della fattispecie incriminatrice, operata con l’art. 1 della legge 29 ottobre 2016 n.199 – entrata in vigore il 4 novembre 2016 ed applicabile alle condotte poste in essere in epoca successiva – che, nel dettare disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo, riformula sostanzialmente la norma di cui all’art. 603 bis del codice penale, pur mantenendone ferma la rubrica (Intermediazione   illecita   e   sfruttamento   del lavoro).

Stabilisce, invero, la nuova norma che “salvo che il fatto costituisca piu' grave reato, e' punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa  da  500  a  1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

    1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al  lavoro  presso terzi in condizioni di sfruttamento,  approfittando  dello  stato  di bisogno dei lavoratori;

    2)  utilizza,  assume  o  impiega  manodopera,   anche   mediante l'attivita' di intermediazione di cui al numero  1),  sottoponendo  i lavoratori a condizioni di sfruttamento  ed  approfittando  del  loro stato di bisogno”.

La condotta illecita del reclutatore di manodopera non è più pertanto la sola ad avere rilievo, posto che alla stessa si affianca, ragionevolmente, quella del “datore di lavoro”.

La condotta si incentra poi, ora, sulle condizioni di sfruttamento  ed  approfittando  dello stato di bisogno, mentre il secondo comma del nuovo art. 603 bis c.p. stabilisce che “se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia,  si  applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000  a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato”. Violenza e minaccia costituiscono dunque un’aggravante e non più un elemento costitutivo del reato.

E fin qui tutto bene: si tratta di innovazioni da salutare positivamente.

Ma è l’indicazione normativa degli indici dello sfruttamento, contenuta nel terzo comma, che presenta, rispetto alla precedente versione della norma, una modifica, relativa all’indice che concerne le norme di sicurezza del lavoro, che lascia francamente perplessi ed induce a chiedersi se davvero il legislatore abbia sempre adeguatamente presenti le conseguenze applicative delle disposizioni che emana.

Stabilisce dunque il terzo comma che “ai fini del presente articolo, costituisce indice  di  sfruttamento la sussistenza di una o piu' delle seguenti condizioni:

    1)  la  reiterata  corresponsione   di   retribuzioni   in   modo palesemente   difforme   dai   contratti   collettivi   nazionali   o territoriali   stipulati   dalle   organizzazioni   sindacali    piu' rappresentative  a  livello  nazionale,  o  comunque   sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato;

    2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale,  all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;

    3) la  sussistenza  di  violazioni  delle  norme  in  materia  di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

    4) la sottoposizione del lavoratore a  condizioni  di  lavoro,  a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.

Ebbene, mentre gli indici di cui ai punti 1, 2 e 4 ripetono sostanzialmente la precedente versione e non originano rilevanti problemi interpretativi, l’indice di cui al punto 3 è, nella sua assolutezza, spiazzante. Si tratta, comunque, di una formulazione diversa dalla corrispondente espressione della norma precedente, che concerneva “la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tali da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale”. La soppressione delle parole sottolineate rende ora sufficiente la mera sussistenza di violazioni (al plurale, quindi ne bastano due sole, anche contestualmente accertate) allo sterminato numero delle disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro (più corretta sarebbe stata l’espressione “salute e sicurezza del lavoro”) per affermare che il reclutamento o l’impiego della manodopera avvenga in condizioni di sfruttamento! E’ ben vero che per l’integrazione del precetto penale è anche necessario che allo sfruttamento si accompagni l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, ma è noto come questo requisito possa, soprattutto in periodi di crisi economica e sociale, oggettivamente individuarsi agevolmente, se non costantemente, nel fatto che il lavoratore ha necessità di lavorare e per lo più non è in condizioni di scegliere tra diverse alternative di lavoro, ma è costretto ad indirizzarsi verso l’unica possibilità che gli viene offerta.

E dunque, essendo venuta meno la precisazione per cui le violazioni in materia di sicurezza devono essere idonee ad esporre il lavoratore a pericolo, non rimane che concludere nel senso che qualsiasi violazione – anche se di per sé non sanzionata, vale aggiungere – può essere sintomatica, secondo la presunzione normativa, dello sfruttamento del lavoratore. E il pensiero va alle numerose violazioni di tipo formale che connotano la normativa di prevenzione, come, ad esempio, quelle che attengono all’omessa predisposizione di un documento, o all’omissione di una comunicazione dovuta, o addirittura alla mancata consegna al lavoratore della tessera di riconoscimento. Ebbene, alla stregua del dettato normativo costituisce indice di sfruttamento del lavoratore anche l’accertamento di due violazioni del contenuto indicato! Il tutto, si badi bene, anche quando il lavoratore sia correttamente retribuito, goda dei dovuti periodi di riposo e di ferie, osservi un orario di lavoro regolare, lavori in condizioni adeguate e non sia sottoposto a metodi di sorveglianza degradanti!

Del resto, che l’esposizione del lavoratore a pericolo non costituisca un presupposto per la configurabilità dello sfruttamento è confermato dal fatto che il legislatore ha ritenuto di dover ribadire la configurazione di una circostanza aggravante, già prevista dalla norma previgente, nei casi in cui il fatto esponga “i  lavoratori  sfruttati  a situazioni di grave pericolo,  avuto  riguardo  alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro” (ultimo comma, n.3, del nuovo art. 603 bis c.p.).

L’unica possibilità per far fronte alle paradossali conseguenze repressive che potrebbero derivare dall’assolutezza del dettato normativo è dunque quella di patrocinare un’interpretazione assai rigorosa dell’ulteriore requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, ancorandolo ai soli casi in cui le condizioni soggettive del lavoratore (ad esempio, uno straniero in condizioni di irregolarità nel nostro paese, o un lavoratore appena licenziato e con un nucleo familiare a carico) non consentissero allo stesso alcuna possibilità concreta di rifiutare il lavoro offerto. L’approfittamento richiesto dalla norma presuppone poi che tali condizioni fossero conosciute dall’autore del reato, che se ne sia quindi giovato ai propri fini.

Ad ogni modo, per concludere l’analisi della nuova disciplina collegata al reato di cui all’art. 603 bis c.p. va osservato che il nuovo art. 603-bis.1. prevede una circostanza attenuante “nei confronti di chi, nel  rendere  dichiarazioni  su  quanto  a  sua conoscenza, si adopera per evitare  che  l'attivita'  delittuosa  sia portata  a   conseguenze   ulteriori   ovvero   aiuta   concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria  nella  raccolta  di prove decisive per l'individuazione o la cattura  dei  concorrenti  o per il sequestro delle somme o altre utilita' trasferite”.

Ed ancora, l’art. 603-bis.2. stabilisce che “in caso di condanna o di applicazione  della  pena  su  richiesta   delle   parti   ai   sensi dell'articolo 444 del  codice  di  procedura  penale  per  i  delitti previsti dall'articolo  603-bis,  e'  sempre  obbligatoria,  salvi  i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento  del danno, la confisca delle cose che  servirono  o  furono  destinate  a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato.  Ove essa non sia possibile e' disposta la confisca di beni di cui il  reo ha la disponibilita', anche indirettamente o per interposta  persona, per un valore corrispondente  al  prodotto,  prezzo  o  profitto  del reato”.

Con disposizione del tutto innovativa, infine, è previsto che qualora sussistano le condizioni per far luogo al sequestro preventivo dell’azienda presso cui si manifestano le condizioni di sfruttamento, il giudice possa disporre, in luogo del sequestro, “il controllo giudiziario dell'azienda  presso cui e' stato commesso il reato, qualora l'interruzione dell'attivita' imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative  sui  livelli occupazionali o  compromettere  il  valore  economico  del  complesso aziendale”. In tal caso il giudice nomina uno o piu' amministratori, scelti tra gli  esperti  in   gestione   aziendale   iscritti   all'Albo   degli amministratori giudiziari; l’amministratore è tenuto ad affiancare  l'imprenditore  nella gestione dell'azienda, autorizzando  lo  svolgimento  degli  atti  di amministrazione utili all'impresa e  riferendo  al  giudice  ogni  tre mesi,  e  comunque  ogni  qualvolta  emergano   irregolarita'   circa l'andamento dell'attivita' aziendale.

 

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