La rilevanza del comportamento negligente del lavoratore: permane la centralità del tema nell'accertamento delle responsabilità in ordine ad un infortunio
Passano gli anni, si celebrano centinaia di processi, matura – o almeno si speri che maturi – la cultura della sicurezza, ma tra i temi più frequentemente dibattuti nei processi originati da un infortunio sul lavoro c’è pur sempre quello della rilevanza del comportamento negligente del lavoratore quale causa determinante l’infortunio e quale esimente della responsabilità del datore di lavoro e dei suoi collaboratori.
Non v’è dubbio che tantissimi infortuni rinvengono tra le cause determinanti un comportamento in senso lato “colposo” dello stesso infortunato; il fatto è, però, che la funzione preventiva delle norme che tutelano la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro vale anche, se non soprattutto, a garantire presidi di tutela in grado di impedire lesività proprio in occasione di comportamenti che potrebbero definirsi maldestri del lavoratore. E allora il comportamento del lavoratore “maldestro” non può che essere valutato alla luce della funzione protettiva delle norme; il tutto, ovviamente, sul presupposto che si accerti una violazione della normativa prevenzionale da parte del datore di lavoro e/o dei suoi collaboratori, che si dimostri di per sé rilevante ai fini della produzione dell’infortunio.
La frequente allegazione del tema nei processi che quotidianamente si celebrano ha determinato una profusione di sentenze della Cassazione che hanno fissato un preciso criterio interpretativo, che ormai può qualificarsi alla stregua di diritto vivente. Ma di recente una sentenza (la n.29794 della IV sezione, depositata il 10.7.2015, ricorrente Blanco) si segnala all’attenzione perché arriva a ribadire il criterio stesso pur tenendo in considerazione le nuove responsabilità e il nuovo ruolo in tema di prevenzione che la figura del lavoratore viene ad assumere nell’ambito del sistema normativo già tracciato dal d.lgs. n.626/1994 e poi consolidato dal d.lgs. n.81/2008.
Il caso riguardava il decesso di un dipendente, in servizio da appena due giorni, il quale durante le operazioni di scarico, dal camion da lui condotto, di bancali di vasche da bagno, ognuna del peso di una tonnellata, veniva investito dal carico, subendo così uno schiacciamento cranio-toracico.
Al datore di lavoro era contestato di non aver provveduto a fornire al dipendente la dovuta formazione in ordine alle operazioni di scarico che doveva effettuare né adeguata attrezzatura per l'espletamento delle sue mansioni.
In primo grado il Tribunale aveva assolto l’imputato, osservando che l’infortunio si era verificato per una condotta, definita impulsiva, dello stesso lavoratore. Questi, al quale era stato fornito dalla società committente un muletto manuale ( della portata di due tonnellate) per movimentare il carico, aveva inforcato correttamente in modo longitudinale uno dei bancali, quando, resosi conto che lo stesso stava pericolosamente inclinandosi verso la sua destra, si era prodigato per evitarne la caduta, portandovisi davanti con il proprio corpo nel disperato tentativo di sorreggerlo con le braccia, rimanendone travolto. La sentenza di appello aveva invece condannato il datore di lavoro, ponendo a fondamento del giudizio di responsabilità due circostanze di fatto: l'omessa formazione del lavoratore, dimostrata dal fatto che la relativa attestazione non risultava sottoscritta dal lavoratore e dalla ritenuta scarsa credibilità della versione difensiva sul punto; la imprudente ma non abnorme condotta del lavoratore stesso, in quanto pienamente inserita nell'attività lavorativa ed in stretta relazione proprio con la mancanza di formazione dello stesso.
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione ha ribadito l’orientamento consolidato, alla stregua del quale la condotta colposa del lavoratore infortunato può escludere la responsabilità del datore di lavoro solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità e dell’abnormità. Quanto all' abnormità della condotta, l'ipotesi tipica è quella del lavoratore che provochi l'infortunio ponendo in essere, colposamente, un'attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento "esorbitante" rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed inevitabile) per il datore di lavoro (come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un'altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite in esclusiva ad altro lavoratore). Ma la Cassazione ha mostrato di condividere anche la precisazione, fornita da passata giurisprudenza, che ha esteso il concetto di "abnormità", ammettendo che questo possa ravvisarsi anche in situazioni e in comportamenti che, pur "rientrando nelle mansioni proprie" del lavoratore, siano consistiti in qualcosa di radicalmente, ontologicamente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro.
Ciò che conta, in sostanza, è la considerazione della prevedibilità/imprevedibilità della condotta del lavoratore, che può presentarsi negli stessi termini anche quando si discuta di attività strettamente connesse con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
In questa prospettiva, il comportamento del lavoratore di cercare di contrastare con le mani la caduta del carico di circa una tonnellata è appunto istintivo e dunque ampiamente prevedibile, essendo frutto di una reazione che sfugge ai meccanismi di controllo razionale. Di condotte del genere occorre quindi tener conto nella previsione delle procedure di sicurezza del lavoro.
Ma, come detto, la sentenza si segnala perché ribadisce l’orientamento consolidato anche ragionando sul fatto che il lavoratore, pur essendo il soggetto primariamente tutelato dalla normativa prevenzionale, è anch'egli titolare di una posizione di garanzia nella materia del lavoro. La sentenza arriva invero a definire la posizione del lavoratore come situazione “bifronte”: il lavoratore come soggetto destinatario di responsabilità e come soggetto destinatario di protezione.
Importante, in proposito, è la disposizione che dettaglia in maniera ancora più puntuale rispetto alla previgente disciplina (cfr., in particolare, l' articolo 6 del DPR n. 547 del 1955), gli obblighi comportamentali del lavoratore (articolo 20 del decreto legislativo n. 81 del 2008). Di rilievo, in particolare, è l'obbligo imposto al lavoratore dal comma 1 del citato articolo di prendersi cura non solo della propria salute e sicurezza, ma anche di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni.
Ma tale disposizione – segnala la Corte – non muta le considerazioni svolte a proposito del comportamento negligente del lavoratore, in quanto va letta unitamente a quella ( art. 18, comma 3 bis) che cristallizza l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro e del dirigente sull'adempimento degli obblighi previsti a carico di lavoratori, preposti, progettisti, fabbricanti, fornitori, installatori, medici competenti. La responsabilità del datore di lavoro non è, pertanto, esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell'infortunio, in quanto al datore di lavoro è imposto (anche) di esigere il rispetto delle regole di cautela da parte del lavoratore.
Il datore di lavoro è dunque "garante" anche della correttezza dell'agire del lavoratore ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 81 del 2008, che impone al primo di richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in tema di sicurezza del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.
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