Prestazione inadeguata del medico competente e rapporto di causalità con il decesso del lavoratore

Il ruolo del medico competente ha assunto, con le modifiche normative intervenute a partire dal d.lgs. n.277/1991, un’importanza sempre maggiore nell’ambito dell’organizzazione della sicurezza del lavoro in ambito aziendale, cosicché le funzioni attribuite dalla normativa a tale figura si appalesano di centrale rilievo per il conseguimento di livelli di sicurezza elevati, attenti alle specifiche condizioni fisiche e psichiche dei singoli lavoratori.

Secondo l’interpretazione più ricorrente, i compiti del medico competente possono suddividersi essenzialmente in tre categorie:

  1. a) i compiti c.d. professionali costituiti essenzialmente dal dovere di effettuare la sorveglianza sanitaria, ovvero l’insieme degli atti medici (tra cui le diverse tipologie di visite) finalizzati alla tutela dello stato di salute dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionale e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. La programmazione e lo svolgimento della sorveglianza sanitaria devono avvenire attraverso protocolli sanitari, calibrati sui rischi specifici, tenendo conto degli indirizzi scientifici più avanzati e dello stato generale di salute del lavoratore.
  2. b) i compiti c.d. collaborativi rappresentati dal dovere di cooperare con il datore di lavoro alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori ai rischi. La partecipazione del medico competente alla fase di valutazione dei rischi aziendali garantisce allo stesso un’approfondita conoscenza dell’organizzazione dei processi lavorativi e gli consente, conseguentemente, di fissare adeguate misure di prevenzione ed efficaci protocolli sanitari; nell’ambito di tale attività si colloca anche il suo coinvolgimento, da parte del datore di lavoro, nella redazione del documento di valutazione dei rischi;
  3. c) i compiti c.d. informativi, consistenti nel dovere primario di informare i lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione dell’attività; nel dovere di fornire, a richiesta, informazioni analoghe ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori; nel dovere di esprimere per iscritto, in occasione delle riunioni di cui all’art. 35 (riunioni periodiche, obbligatorie nelle aziende con più di 15 dipendenti aventi ad oggetto il tema della sicurezza), al datore di lavoro, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e di fornire indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico – fisica dei lavoratori. Può essere ricondotto alla seconda o alla terza categoria il dovere di individuazione delle possibili cause di eventuali disturbi riferiti dal lavoratore.

Alla luce di questa premessa di carattere generale va inquadrato il caso deciso dalla sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 2 luglio 2020, n. 19856.

Un medico competente era stato ritenuto responsabile, in primo e secondo grado, del decesso di un lavoratore a titolo di colpa generica e per la violazione delle regole che presiedono l’arte medica. Si imputava in particolare al sanitario di avere omesso, nel redigere i certificati di idoneità lavorativa, di effettuare un’adeguata valutazione dei risultati dei precedenti esami ematochimici, con specifico riferimento alle alterazioni della crasi ematica, che presentava evidente leucopenia, lieve anemia, piastrinopania, pancitopenia, linfocitosi con segnali di evidente peggioramento rispetto agli esami precedenti. Gli si contestava altresì di aver omesso qualunque informazione e comunicazione dell’esito degli esami sopraindicati al diretto interessato e al medico curante, determinando così un ritardo diagnostico della patologia (mielodisplasia) della quale il lavoratore era affetto da almeno due anni, compromettendo così le possibilità di intervento terapeutico che avrebbero potuto allungarne la durata della sopravvivenza e migliorare la qualità della vita.

Veniva rimproverato al medico di avere sottovalutato, in presenza del predetto quadro clinico, le condizioni del lavoratore, quanto meno pre – patologiche, che imponevano lo svolgimento di ulteriori accertamenti sanitari e di non avere espresso un giudizio di inidoneità al lavoro.

La Corte di Cassazione, chiamata a decidere il ricorso del medico, ha intanto affermato che le diverse tipologie di visita medica che il medico competente è tenuto a compiere alla stregua delle disposizioni normative devono essere svolte secondo i canoni classici della semeiotica, della raccolta approfondita dell’anamnesi, di un attento e mirato esame obiettivo e con lo svolgimento degli esami clinici e biologici ritenuti necessari. Inoltre, per alcuni rischi lavorativi, regolamentati da apposite leggi, esistono protocolli diagnostici minimi obbligatori, comunque implementabili a giudizio del medico competente. Per la maggioranza dei rischi, invece, la scelta di accertamenti complementari è lasciata alla valutazione del medico, cui spetta di non trascurare l’esecuzione delle indagini utili per una diagnosi precoce, anche in periodo preclinico, di eventuali malattie professionali, e, nel contempo, constatare il permanere delle condizioni di sopportabilità del rischio. La Corte ha dunque sottolineato l’importanza del ruolo del medico competente nella diagnosi di patologie (ovvero dei primi sintomi di patologie) che, se tempestivamente conosciute e curate, possono essere guarite o comunque risultare significativamente meno pregiudizievoli.

Ma la Corte si è poi dovuta confrontare con il delicato tema del nesso di causalità, particolarmente complesso nel campo della responsabilità medica, alla cui stregua non può certo dirsi in modo automatico, ma solo sulla base di un riscontro rigoroso improntato a predeterminate regole di giudizio, che la negligenza del sanitario eventualmente accertata abbia avuto un rilievo causale nella determinazione dell’esito infausto.

In questo senso la Corte ha quindi osservato che, se è vero che il medico competente risponde, nella qualità di titolare di un’autonoma posizione di garanzia, delle fattispecie di evento che risultano di volta in volta integrate dall’omissione colposa delle regole cautelari poste a presidio della salvaguardia del bene giuridico – salute dei lavoratori – sui luoghi di lavoro, direttamente riconducibili alla sua specifica funzione di controllo delle fonti di pericolo istituzionalmente attribuitagli dall’ordinamento giuridico, nondimeno il presupposto della rimproverabilità soggettiva nei confronti dell’imputato implica la prevedibilità dell’evento, che va compiuta ex ante, riportandosi al momento in cui la condotta è stata posta in essere avendo riguardo anche alla potenziale idoneità della stessa a dar vita ad una situazione di danno e riferendosi alla concreta capacità del soggetto di uniformarsi alla regola cautelare, da commisurare al parametro del modello dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze da parte dell’agente concreto. In altre parole, nel momento in cui pone in essere la condotta, il medico deve essere consapevole, alla luce delle regole dell’arte medica e della specificità del caso concreto, di quali potrebbero essere le conseguenze pregiudizievoli di una sua eventuale scelta colposa.

E dunque la Corte ha evidenziato, in punto di fatto, che, per quanto emergeva dalle sentenze di merito, il medico aveva provveduto a consegnare i risultati delle analisi cliniche e in particolare degli esami ematologici al lavoratore, consigliandogli di recarsi dal medico curante per ulteriori approfondimenti diagnostici, mentre quest’ultimo non aveva dato alcun seguito a tali indicazioni. Ha precisato la Corte che non è prevista, al riguardo, alcuna interlocuzione diretta da parte del medico competente nei confronti del medico curante del lavoratore, cosicchè nessun rimprovero a tale titolo poteva addebitarsi al medico nel caso di specie.

In particolare, la Corte ha osservato che, nella vicenda sottoposta al suo esame non risultava adeguatamente sviluppato dai giudici di merito il tema volto a verificare se, nello svolgimento delle visite periodiche eseguite, sulla base delle effettive conoscenze, sia cliniche che di lavoro, o, comunque, di quelle conoscibili, e nella correlata formulazione dei relativi giudizi di idoneità alle mansioni specifiche, fosse ravvisabile, a carico del medico, la sussistenza di una condotta colposa, tenuto conto dei doveri cautelari attribuitigli dall’ordinamento giuridico in ragione della sua specifica posizione di garanzia rivestita.

Ma ha anche aggiunto che, una volta accertati eventuali profili di colpa nella condotta del medico, per affermare la causalità della stessa rispetto all’evento lesivo sarebbe stato necessario operare il giudizio controfattuale, ovvero chiedersi se, in caso di c.d. comportamento alternativo lecito, l’evento che ne è derivato si sarebbe verificato ugualmente, rappresentando la concretizzazione del rischio che doveva essere prevedibile.

La Corte ha ulteriormente precisato che nelle ipotesi di omicidio o di lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro – fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, deve essere svolto dal giudice tenendo conto della specifica attività che sia stata specificamente richiesta al sanitario (diagnostica, terapeutica, di vigilanza o di controllo) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con altro grado di credibilità razionale. Può pertanto ritenersi sussistente il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o caratterizzandolo con minore intensità lesiva.

La Corte ha ritenuto che nella fattispecie in questione la valutazione sul punto non fosse stata esaustivamente compiuta ed ha quindi annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame.

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