Responsabilita’ delle persone giuridiche: nessun automatismo, ma verifica in concreto demandata al giudice
Un’altra, recente pronuncia della Suprema Corte in tema di responsabilità delle persone giuridiche per l’illecito collegato ai reati di omicidio o lesioni personali colpose commessi con violazione delle norme di prevenzione (Cassazione Penale, Sez. 4, 28 ottobre 2019, n. 43656) mette in risalto l’inesistenza – alla stregua della regolamentazione dettata dal d.lgs. n.231/2001 – di automatismi interpretativi nella valutazione della responsabilità stessa e la necessità, al contrario, di un’accorta verifica del giudice, sia in punto di rilevazione della sussistenza dei requisiti dell’interesse e/o del vantaggio per la persona giuridica (requisiti di diretta derivazione o in stretto collegamento con il reato commesso) sia in punto di valutazione dell’adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo legalmente valido ed almeno astrattamenteidoneo ad impedire la commissione del reato.
Durante l’esecuzione di lavori edili di sopraelevazione di un corpo di fabbrica in un edificio pubblico si era verificato il crollo della pavimentazione, a causa del rilevante peso di una macchina palificatrice; un operaio rimaneva schiacciato tra la macchina ed il muro perimetrale dell’edificio. Il profilo di colpa era stato individuato nel fatto che il suolo non era stato ricoperto da assi di legno e da lamiere prima del passaggio del pesante mezzo, onde impedire il precipitare dello stesso per l’evenienza che il terreno avesse ceduto. La responsabilità dell’accaduto era stata addebitata al datore di lavoro dell’impresa esecutrice e al capocantiere preposto. La società esecutrice era stata riconosciuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25-septies del d.lgs. n. 231 del 2001, per non avere operato tempestivamente ed efficacemente per prevenire la commissione del reato di omicidio colposo. Nel ricorso in Cassazione della società si evidenziava, per quanto in questa sede interessa, che la stessa aveva documentato l’esistenza di un modello di organizzazione, gestione e controllo (acronimo: M.O.G.C.) ex lege n. 231 del 2001, art. 6, adottato dal consiglio di amministrazione prima dei fatti, nonchè la nomina di un organismo di vigilanza (acronimo O.V.) che aveva svolto correttamente il proprio compito di verificare la corretta applicazione del modello.
Nell’esaminare la fondatezza del ricorso, la Corte muove il proprio ragionamento sul tema dalla considerazione – già espressa dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, relativa alla vicenda Thyssenkrupp – per cui grava sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito dell’ente, mentre a quest’ultimo incombe l’onere, con
effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; l’;ente, invero, non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì di un fatto proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda.
Sempre sulla scia delle osservazioni della citata sentenza delle Sezioni Unite, la Corte precisa che, in tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’art. 5 del d.lgs. 231 del 2001 all’interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all’evento lesivo e sono alternativi e concorrenti tra toro: il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Si può così ipotizzare un interesse prefigurato come indebito arricchimento e magari non realizzato e, invece, un vantaggio obiettivamente conseguito tramite la commissione di un reato.
Dopo avere sintetizzato le più rilevanti osservazioni riscontrabili nelle pronunce delle sezioni semplici della Corte circa i due concetti in esame, la sentenza ha puntualizzato che ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare, allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza dei lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa, con conseguente massimizzazione del profitto. Il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
Ma ulteriore principio importante sottolineato dalla pronuncia è quello per cui occorre accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio.
E passando a calare nel concreto i richiamati principi, la Corte, citando altre sentenze, ha ritenuto che sussiste l’interesse dell’ente nel caso in cui l’omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza
determini un risparmio di spesa, mentre si configura il requisito del vantaggio qualora la mancata osservanza della normativa cautelare consenta un aumento della produttività; ha anche sottolineato che il risparmio; in favore dell’impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall’interesse e dai vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione.
Fonti di risparmio di spesa che possono costituire il presupposto per l’applicazione dell’art. 5 del d. lgs. n. 231 del 2001, per esemplificare ulteriormente, sono anche il risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e di informazione del personale, ovvero la velocizzazione degli interventi di manutenzione ed il risparmio sul materiale di scarto.
E’ necessario, però, che il giudice operi una concreta verifica in proposito, indicando puntualmente quale interesse o vantaggio sia stato ravvisato nell’agire dell’ente, senza ricorrere ad alcun automatismo. Non esiste, quindi, un “interesse” o un “vantaggio” presunto, ma tali requisiti vanno concretamente dimostrati dalla pubblica accusa e dunque vagliati dal giudice.
Ma la verifica concreta del giudice deve appuntarsi anche sulla adozione e sulla idoneità del modello organizzativo, ogniqualvolta la persona giuridica abbia dedotto l’esistenza di tale modello, come è suo onere fare se vuole andare esente da responsabilità. Qui l’onere della prova si sposta, come detto, dalla pubblica accusa alla persona giuridica accusata. Ma anche in questo caso il giudice di merito deve accertare preliminarmente l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione ex art. 6 del d. lgs. n. 231 del 2001, come dedotto dalla persona giuridica; poi, nell’evenienza che il modello esista, deve accertare che lo stesso sia conforme alle norme; infine, che esso sia stato efficacemente attuato o meno nell’ottica prevenzionale, prima della commissione dei fatti (in tal senso si è espressa anche Cass., IV, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni ed altri). Anche su questi due ultimi punti è la persona giuridica a dover allegare la conformità del M.O.G.C. alle previsioni di legge, ma il giudice deve vagliare quanto gli viene sottoposto.
Nel giudizio concluso con la sentenza di cui si discute, i giudici di merito, al di là di un generico richiamo ad una maggiore velocità nell’esecuzione dei lavori, non avevano indicato puntualmente quale “interesse” o “vantaggio” fosse stato ravvisato nell’agire dell’ente, non avendo considerato la circostanza che risultava essere stato stipulato un contratto di nolo a caldo, rispetto al quale si ignoravano le pattuizioni retributive intercorse tra le ditte. Ma, soprattutto, risultava del tutto omessa nelle sentenze di merito la valutazione sul contenuto e sulla idoneità del modello organizzativo, tema che pure la difesa aveva seriamente posto. E dunque, ecco la conclusione: l’equazione “responsabilità penale della persona fisica datore di lavoro / preposto = responsabilità amministrativa dell’ente” non può trovare ingresso, alla luce dell’articolata disciplina posta dal d.lgs. n. 231 del 2001.